Di seguito il bellissimo articolo a firma di Lorenzo Martinelli pubblicato sul settimanale CalcioPiù del 20 aprile 2021.
‘Palla in Greve!’ e giù, un altro prezioso pallone andato perso. Il cuoio galleggia e la corrente del fiume che nasce nel Chianti e sfocia nell’Arno dopo aver attraversato Scandicci corre veloce in molti periodi dell’anno. All’altezza di Bibe poi, dove sorge la conosciuta trattoria omonima, nei pressi di Ponte all’Asse, la Greve non fa sconti e si fa sentire con il suo carico di umidità che satura l’aria nei mesi autunnali e mantiene bassa la colonnina di mercurio durante l’inverno. Eppure il campo sportivo di Bibe è stato, e con ogni probabilità a livello ideale sarà sempre, la dolce casa natale del Porta Romana. ‘Una casa non è una questione di mattoni, ma di amore. Anche uno scantinato può essere meraviglioso’ – dice lo scrittore francese Christian Bobin, e l’aforisma veste alla perfezione il legame che c’è fra gli arancioneri e lo storico campo di Bibe; quello dove è nata la società, dove questa ha imparato a camminare e che si è lasciata alle spalle solo quando ha iniziato a correre. A un certo punto infatti, per quanto custodisca la parte più preziosa dei ricordi, quel rettangolo è apparso troppo stretto per poter contenere aspirazioni e sogni divenuti di un ordine di grandezza superiore. Un po’ come accade nella vita, al momento dell’ingresso nell’età adulta, con quelle analogie che solo il calcio sa creare in un continuo gioco di riflessi con l’esistenza di tutti noi.
Stretto fra il fiume e un ripido pendio, color terra battuta interrotto da pochissimi stoici, resilienti ciuffetti d’erba, il campo di Bibe è uno di quei teatri naturali in cui l’epica del calcio di periferia – quello che con un po’ troppa retorica che non ne scalfisce però la sostanza viene definito come il più genuino e spontaneo – può prendere vita e dipanare una delle sue storie. Abusando degli aforismi si può dirla allora con le parole di Plinio il Vecchio: ‘Casa è dove si trova il cuore’. Ecco trovata l’esatta fotografia del rapporto che lega il Porta Romana con la sua casa natale.
Trattandosi di storia occorre però precisione; allora diciamo subito che il cuore arancionero inizia a battere qualche anno prima di quel 1964 che fissa la fondazione della società, e poco lontano dal campo di Bibe. Ora, se tutte le favole iniziano con il proverbiale ‘c’era una volta..’, tutte o quasi le storie di una società sportiva iniziano con una domanda: ‘Perché non mettiamo su una squadra di calcio?’. Nel caso del Porta Romana, il quesito parte da Piero Marzoppini nel lontano 1959, ed è diretta all’amico Giorgio Borchi. Marzoppini è il ragioniere della Fiorentina e ama il calcio, specialmente quello giovanile, ha con sé una decina scarsa di ragazzi della zona di San Frediano che non appena un pallone si mette a rotolare iniziano a rincorrerlo e propone a Borchi un’idea che in pochissimo tempo si trasforma in realtà: i due vanno da don Osponi, il parroco di Sant’Ilario a Colombaia, che accoglie di buon grado la proposta e tiene a battesimo il Sant’Ilario, che si affilia al Centro Sportivo Italiano. Erano gli anni della ricostruzione e della rinascita, gli anni di Don Camillo e dell’Onorevole Peppone e le squadre nascevano come funghi, ma sempre sotto la chioma di due alberi: o fra le radici di una parrocchia, o fra quelle di una Casa del popolo. Giorgio Borchi, che – diciamolo subito – è il nome attorno a cui ruota tutta la storia degli arancioneri, qualche anno fa ricordò con queste parole quel periodo «talvolta era un problema andare a giocare in periferia, erano i tempi delle dispute tra comunisti e democristiani e noi eravamo considerati la squadra del prete; è capitato pure di rimanere chiusi dentro gli spogliatoi.»
Scattiamo in avanti di qualche anno e, nel 1964, ecco che il primo nucleo del sogno scaturito dall’attivismo di Borchi e Marzoppini si struttura in una forma che, attraverso i decenni, resta intatta fino a quella attuale: la necessità di avere in dotazione un impianto sportivo trova realizzazione nell’offerta dell’ingegner Cantagalli, un parrocchiano della chiesa dei Santi Quirico e Giulitta, lungo quella via San Quirichino che assieme a via delle Bagnese collega Galluzzo e Scandicci. Don Giulio Staccioli, il parroco, dà l’ok ai lavori: già, perché per far sì che in tanti anni su quel rettangolo di 90 metri per 45 si dipanasse la storia del Porta Romana occorreva scavare i canali di deflusso dell’acqua e spianare il terreno, a mano e con il trattore. Ma si sa, con un obiettivo come quello di veder realizzato finalmente un campo proprio l’energia nelle braccia raddoppia e così il terreno di gioco – intitolato a don Staccioli ma da tutti conosciuto come ‘Bibe’ – atterra in quell’angolo di terra alle porte del capoluogo e inizia la sua convivenza con il fiume Greve. Un rapporto di stretta contiguità, divenuto di pericolosa vicinanza ben presto, nel 1966, quando l’alluvione che colpì il comprensorio fiorentino non risparmiò certo il campo di Bibe che però, come ricordato qualche anno fa da Giorgio Borchi, «fu ricostruito da capo e allungato». Mentre l’orologio della storia corre veloce attraverso gli anni Sessanta e Settanta e mentre il campo di Bibe si fa spazio fra gli elementi naturali, il Porta Romana consolida il proprio nome e ha la fortuna di farlo sotto lo sguardo amorevole non di un solo padre, ma di ben tre. L’impegno incessante e appassionato di Giorgio Borchi è praticamente lo stesso di Luciano Tacchi e di Piero Marzoppini, che svolge il ruolo di allenatore e grazie al proprio carisma e alla vicinanza con gli ambienti della Fiorentina è ben voluto da tutti i ragazzi, che spesso ricevono dalle sue mani qualche capo di vestiario color viola. Tacchi percorre avanti e indietro le strade limitrofe per accompagnare i ragazzi al campo, Borchi guida invece la squadra di volontari che come lui provvedono alle mansioni quotidiane attorno e dentro al campo; come, ad esempio, rifornire di legna – un’opera che nei mesi freddi richiede un impegno senza fine – la stufa con cui si riscalda l’acqua degli spogliatoi. Si può solo pensare il sollievo quando il compito iniziò ad essere assolto da una caldaia a gasolio prima e un impianto a metano poi, e la soddisfazione quando grazie all’impegno di Angelo Grazzini furono realizzati l’impianto di illuminazione e la piccola tribuna situata sul lato opposto del campo rispetto a quello del fiume.
Dunque il cuore del Porta Romana ha iniziato a battere a Bibe e lo ha sempre fatto sotto una maglia arancionera. Ora, la questione dei colori è importante: lo è nella vita (a proposito: i colori non esistono nella realtà fisica ma solo nel nostro cervello) e lo è a maggior ragione nel calcio, dopotutto per identificare i compagni e distinguere gli avversari ci si veste in modo diverso da questi ultimi. E i colori del Porta Romana dicono molto di questa società, della sua nascita e della sua volontà di distinguersi fin da subito. Sul piano meramente cromatico ed estetico, bene dire subito che l’arancione sul nero ‘stacca’ benissimo e rende un bel colpo d’occhio, mentre sul piano storico la decisione di adottare il color arancio si rivelerà fortunatissimo, perché dopo pochissimo sarebbe arrivata l’Olanda del calcio totale a ridefinire per sempre il paradigma calcistico, segnando un’epoca. Ma l’istinto primario dietro l’adozione di quei colori era dettato dalla voglia di differenziarsi e non assomigliare a nessun altro: a Firenze domina il biancorosso e quasi tutti i colori sono ben rappresentati, ma l’arancione e il nero ce li ha solo il Porta Romana. E questa voglia di identificarsi è anche riflesso di una volontà, forte, da parte della società di creare una propria identità, attraverso luoghi e rituali-simbolo: il campo di Bibe, il carisma dei padri fondatori, l’arancione, la parrocchia di Sant’Ilario dove tutti gli anni, all’inizio di ogni stagione sportiva, si celebra una messa dedicata alla squadra, come voluto da Giorgio Borchi. Tornando al racconto, Borchi osserva con enorme soddisfazione il suo Porta Romana, iscritto fin dalla fondazione alla Figc, onorare la maglia nei campionati di Terza e Seconda categoria e dotarsi di un settore giovanile capace di sfornare un Campione del Mondo come il compianto Andrea Pazzagli e un ragazzo come Marco Baroni che crescendo si toglierà lo sfizio di giocare a fianco del leggendario Maradona nel Napoli dello scudetto. E la Terza e la Seconda categoria restano a lungo l’habitat naturale degli arancioneri, in una lunga adolescenza di una società che nel frattempo accoglie nelle sue fila i propri ex calciatori che, una volta riposti in soffitta gli scarpini, avvertono il bisogno di mantenere un legame con il Porta Romana diventandone dirigenti. Come nel caso di Claudio Terrazzi, che dopo aver scritto pagine indelebili da calciatore del Porta Romana ne è poi diventato anche presidente, prima di cedere il testimone a Lorenzo Taiti e successivamente all’attuale numero uno Lapo Cirri, restando comunque sempre all’interno dei quadri dirigenziali arancioneri.
Poi però d’improvviso, e occorre spostare le lancette della storia all’inizio del secondo millennio, avviene un qualcosa di inatteso, seppur pianificato e stabilito da un progetto che Stefano Fiorini – forse l’uomo simbolo degli arancioneri in continuità con la figura dei fondatori – giustamente qualche anno fa definì «una lucida immensa follia, che però siamo riusciti a realizzare». Il riferimento è all’incredibile ascesa del Porta Romana, dalla Terza categoria fino all’Eccellenza, nel breve volgere di un decennio, scaturita da una scintilla riaccesa proprio da Fiorini che con il suo entusiasmo contagioso infiamma l’ambiente. Se i calciatori che rappresentarono il Porta Romana a inizio anni Sessanta rispondevano ai nomi di Bartolini, Corti e Ghiribelli, se alcuni dell’epoca successiva furono ad esempio Marco Mordini, Iacopo Bertini, Giacomo Campolmi, Alessandro Gazzareni e appunto Stefano Fiorini, gli anni Duemila sono quelli del Porta Romana di Leonardo Mastrantoni e Stefano Lacchi, scelti da Fiorini nel 2003 per guidare la riscossa del Porta Romana, reduce da una deludente stagione in Terza categoria che aveva portato il presidente Fabio Vivoli dinanzi a un bivio: quello di alzare l’asticella per evitare che il sogno arancionero si spegnesse lentamente. L’operazione rilancio riesce in pieno e in tempi da record: il Porta Romana sale subito di categoria e nel maggio del 2007 sfiora la Prima, chiudendo il campionato a quota 72 punti, tantissimi ma non sufficienti per centrare la promozione diretta. I play-off sono però un successo: il Casotto Pescatori prima e il Terricciola poi si arrendono agli arancioneri che avanzano così di rango. Seguono due stagioni di assestamento in Prima categoria finché, nel 2010, il Porta Romana centra un altro secondo posto frutto di un girone di ritorno stratosferico che prende abbrivio dalla vittoria sull’Antella, ed ecco ancora una volta i play-off. Proprio l’Antella viene piegata con un doppio 2-0 in semifinale, lo scontro decisivo è poi contro la Floriagafir. Terrazzi firma l’uno a uno dell’andata, al ritorno però le cose vanno male e la sconfitta per 2-0 coincide con un momento complicato, perché occorre compiere un’operazione delicata: quella di rifornire in quota l’aereo arancionero, evitando il contraccolpo psicologico. È un’altra operazione che va in porto con pieno successo, nella stagione successiva infatti (2010/2011) il Porta Romana vince il campionato di Prima categoria e si regala un bis strepitoso l’anno ancora dopo. E visto che prima abbiamo citato alcuni nomi, continuando un elenco destinato a restare parziale, fra gli altri fedelissimi alla causa arancionera che hanno contribuito in modo decisivo al recente exploit del Porta Romana è impossibile non citare almeno Gianluca Conti, forse il più grande bomber di questa società fino al ritiro avvenuto cinque anni or sono, il capitano di tantissime battaglie Andrea Santini, il perno del centrocampo Niccolò Chiarelli, attualmente diesse arancionero, ‘spider-man’ Yuri Morandi che difende i pali del Porta Romana in questo presente congelato dalla pandemia.
Tornando al 2012, il maggio di quell’anno è un ricordo dolce per i tifosi arancioneri, che assistettero in massa a una indimenticabile ultima di campionato in casa del Firenze Ovest, in cui l’uno a tre finale in rimonta sancì il passaggio in Eccellenza, la categoria che sincronizza la narrazione con il presente, avvenuta sul prestigioso palcoscenico del campo delle Due Strade, più ampio ma vicinissimo, non solo geograficamente, a quello di Bibe dove tutto ha avuto inizio e che poi è divenuto troppo stretto per contenere i sogni usciti dal cassetto.
L’Eccellenza, «e perché no anche più in su?», si chiede con un sorriso ironico che però la sa lunga qualche dirigente arancionero. Già, perché no? Dopotutto quando si sono scritti con mano ferma e ispirata alcuni capitoli di una storia, la voglia di proseguire nel racconto è quasi fisiologica.
Giorgio Borchi, dalla fuga per la vita all’amore arancionero
È prerogativa propria delle grandi storie essere un po’ come delle bambole matrioska, contenendo al loro interno altre vicende e personaggi che avrebbero dignità di essere rispettivamente raccontante e approfonditi per intero e in totale autonomia. Anche il Porta Romana vede dipanarsi e aumentare di spessore il filo narrativo del suo racconto tramite l’unione di altri, e fra coloro i quali si sono accorti di tutto ciò con maggior consapevolezza c’è Giacomo Grazzini. Classe 1963, ha vestito la maglia arancionera dal 1975 fino agli inizi degli anni Novanta giocando a fianco di Stefano Fiorini, Luca Gemin e Alfonso De Lauri, diventando poi dirigente e vicepresidente della società, carica che ricopre attualmente. Quando pensate a qualcuno che ama visceralmente il calcio cosiddetto minore, a qualcuno che ne ha capito la reale intima essenza, potete pensare a lui, che ha anche un talento che è una fortuna: quello di essere capace di raccontare e narrare. Grazzini è infatti anche uno scrittore autore già di diverse pubblicazioni, l’ultima delle quali ha visto la luce lo scorso autunno e stuzzica l’appetito dei calciofili. Si intitola ‘Victory 1920-2020. L’amore, la guerra, il calcio’ e ne parleremo più avanti. Con la sua penna si tuffa nelle storie di un calcio che si ammanta di contorni epici non solo per inseguire un modaiolo cliché vintage, dovuto al fatto che sia quello di una volta, ma piuttosto perché era un calcio capace di generare un’epica appunto, una narrazione potente imperniata su valori e ideali. Storie come quella del ‘centravanti bambino’ Claudio Desolati, cui Grazzini dedica un capitolo del libro curato da Caudio Mugnai ‘Tifosi viola, per sempre’, o quella dello scudetto viola del 1969, ripercorso da Grazzini in ‘Campioni! Il sogno, il cuore la gloria’. Storie paradigmatiche che restano, a differenza della durata effimera di una storia su Instagram. Siamo sulle coordinate di ‘Tutto il calcio minuto per minuto’ che, con un brillantissimo gioco di parole, diventa ‘Tutto il calcio, minuto più.. minuto meno. Il calcio ai tempi di Comunardo Niccolai’ in un’altra delle pubblicazioni date alle stampe da Giacomo Grazzini. Tramite la guida di quest’ultimo entriamo dentro il mondo arancionero scoprendone appunto la capacità di contenere al proprio interno una gran quantità di storie e aneddoti. Facendoci raccontare per bene il più gustoso, quello che coinvolge il presidente con l’iniziale maiuscola Giorgio Borchi e una sua rocambolesca fuga da un camion dei nazisti in piena Seconda Guerra Mondiale.
Bibe, il 1964, Giorgio Borchi insieme a Piero Marzoppini e Luciano Tacchi. Coordinate e protagonisti della prima foto d’epoca sono corretti?
«Ricordo perfettamente questi tre uomini che hanno dedicato, assieme ad altri, la loro vita al Porta Romana. Sono stati come dei genitori per centinaia di ragazzi, hanno fatto sì che vestire l’arancionero significasse far parte di una famiglia. Ho giocato nel Porta Romana per venti anni non solo perché probabilmente non ero così bravo da andare a giocare altrove, ma soprattutto perché non ho mai avuto il pensiero di lasciare quella che è stata una vera e propria seconda casa per me come per tanti altri ragazzi nel corso degli anni. E Bibe è per tutti noi una questione di cuore, un fatto romantico, quello di un campo fangoso e pieno di ciottoli, dai rimbalzi irregolari, che ha lasciato cicatrici sulle ginocchia eppure così dolce nella memoria perché ha regalato soddisfazioni e appartiene a un calcio dal sapore nostalgico, meno tecnico e più atletico».
Ci spiega come, in un interessante intreccio fra realtà e finzione narrativa, Giorgio Borchi è finito nelle pagine del suo ultimo libro ‘Victory..1920-2020’?
«Il libro ripercorre la storia dei Campionati del Mondo di calcio dagli inizi fino a oggi sullo sfondo della storia di due famiglie, una tedesca e l’altra italiana, che attraversa il romanzo. Ho scelto di far risiedere la famiglia italiana alle Due Strade, il quartiere dove sono nato e vicinissimo a dove è nato anche il Porta Romana, e ho immaginato che conoscesse Giorgio Borchi. Questo mi ha permesso, in un passaggio del libro, di raccontare un fatto realmente accaduto al presidente del Porta Romana che, da giovanissimo nel pieno del secondo conflitto mondiale, fu probabilmente scambiato per un’altra persona e arrestato dalle truppe tedesche durante un rastrellamento nella zona di Porta Romana. Borchi, classe ’29 quindi poco più di un ragazzo all’epoca dei fatti, fu messo su di un camion nazista diretto verso la Germania, dal quale riuscì a fuggire in modo rocambolesco: sulla strada che attraversa l’Appennino Borchi sfruttò un rallentamento del camion su cui si trovava per saltare giù. Riuscì a far perdere le sue tracce nel bosco, poi viaggiò per qualche giorno nelle campagne finché riuscì a trovare rifugio presso una famiglia fiorentina fino al termine della fase più cruda della guerra».
Nella biografia di Giorgio Borchi trovano spazio questo ma anche tanti altri episodi che hanno reso movimentata la sua giovinezza. Un’età alla quale ha dedicato poi tanta parte della sua vita, con l’impegno quotidiano al campo del Porta Romana dove giocavano i suoi ragazzi. Che tipo era il presidente Giorgio Borchi?
«Una persona carismatica e dal carattere forte, un sanguigno, che voleva bene a tutti i suoi ragazzi ma che sapeva anche farsi sentire con la sua voce da baritono, con la quale pungolava tutti noi e che caratterizzava la sua personalità in apparenza un po’ burbera. Il suo sorriso però era contagioso, è stato il padre putativo e uno dei punti di riferimento per tutto il Porta Romana, fino alla fine. Borchi ha svolto praticamente ogni incarico all’interno della sua società, da quella di calciatore fino al massimo ruolo dirigenziale passando per le mille mansioni quotidiane, come la pulizia degli spogliatoi. Ha incarnato al massimo il calcio e il ruolo di presidente come era una volta, alla Costantino Rozzi o Angelo Massimino: un uomo diretto, senza peli sulla lingua, ma anche una guida. Al momento della sua scomparsa, nel 2016, per me come per tanti altri ragazzi ormai cresciuti è stato un po’ come perdere un secondo padre».
La foto in basso esemplifica meglio di mille parole lo spirito del Porta Romana, un senso d’appartenenza che non si esaurisce dopo aver messo in naftalina gli scarpini.
«Sono d’accordo, in quella formazione del 1983 ci sono io assieme a Stefano Fiorini, il cui impegno è stato e continua a essere di vitale importanza per la società, e poi troviamo Marco Fiaschi, il cui fratello minore Romano era a quei tempi un calciatore del Porta Romana ed è poi divenuto un allenatore conosciutissimo, e fra i nomi spiccano anche quelli di Luca Gemin e di Alfonso De Lauri, che è un amico della nostra società nonché il nostro avvocato di fiducia. Si giocava soprattutto per la gloria, anche se i risultati erano un po’ altalenanti: a maggior ragione vittorie come quella raccontata in quell’articolo è ancora viva nella memoria. La cosa più bella però è che ci siamo tolti davvero tante soddisfazioni in seguito, come dirigenti. Tanti altri sono stati calciatori prima e dirigenti poi del Porta Romana, come Alessandro Gazzareni, un’altra delle anime dei questa società, o Claudio Terrazzi che dopo essere stato a lungo una colonna del centrocampo è divenuto poi dirigente, ricoprendo anche il ruolo di presidente.»
Oltre all’organizzazione e alla cura degli aspetti tecnici, è la continuità attraverso le generazioni uno dei segreti del successo della dirigenza del Porta Romana, avvenuto tramite il progetto che ha portato dalla Terza categoria fino all’Eccellenza?
«Ritengo sia corretto: nel tempo e negli ultimi anni in particolar modo si è formato un gruppo di persone di età eterogenee che con il proprio impegno a bordo campo e soprattutto il loro impegno economico a sostegno del progetto hanno reso possibile la realizzazione di quest’ultimo, che ha condotto il Porta Romana a sfiorare la Serie D. Da Borchi, Marzoppini e Tacchi in giù quello della società è come un imprinting, molti ragazzi si sono innamorati di quella maglia fin da subito e l’hanno fusa assieme alle altre passioni della loro vita. Ecco, la parola corretta è proprio imprinting, come in etologia, una passione che nasce dai valori condivisi di una famiglia allargata, che si trasmette poi di generazione in generazione».
In foto le formazioni del Porta Romana 1982-83 e 1983-84